IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato  in  pubblica  udienza  la  seguente  ordinanza nel
 procedimento penale a carico di Milioto Claudio,  nato  il  5  luglio
 1972  a  Chivasso (Torino) gia' residente a Montanaro (Torino) in via
 Madonna d'Isola n. 31-bis,  recluta  nel  7  Rgt  "Cuneo"  in  Udine,
 imputato  di  "mancanza alla chiamata" artt. 151 e 154 n. 1 C.P.M.P.)
 perche', perdurava nella arbitraria assenza anche posteriormente alla
 sentenza di condanna del tribunale militare di Padova  del  7  giugno
 1994 e fino a tutt'oggi.
   In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            FATTO E DIRITTO
   Con  sentenza  del 7 giugno 1994 (irrevocabile il 16 novembre 1995)
 il militare Milioto Claudio veniva  condannato  da  questo  tribunale
 militare  per reato di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.m.p.), in
 relazione ad assenza dal servizio che ancora  non  era  cessata  alla
 data del giudizio.
   Il   procuratore   militare   in   sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza instaurava altro procedimento per il reato di diserzione
 in  epigrafe,  decorrente  dal  7  giugno  1994,  data  della   prima
 pronuncia. L'assenza a tutt'oggi non e' ancora cessata.
   Secondo  costante giurisprudenza regolatrice e del giudice militare
 d'appello, la prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo  la  sentenza
 di  primo  grado  costituisce  ad  ogni  effetto un nuovo ed autonomo
 reato, come tale da giudicare senza che per  cio'  venga  violato  il
 principio  del  ne  bis  in idem di cui all'art. 649 c.p.p. Dovrebbe,
 pertanto, essere accolta la richiesta del p.m.
   Con varie ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in  date  successive
 questo   "tribunale  sollevava  tuttavia  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente  che
 per  un  unico  reato  permanente,  una  o piu' volte "giudizialmente
 interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento  sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato  medesimo,  in
 relazione  agli  artt.  3, 25, secondo comma, e 27, primo comma della
 Costituzione.  In tal modo questo giudice remittente, nell'alveo  del
 principio  di  civilta'  giuridica  sancito  dall'art.  649 c.p.p., e
 prendendo atto inoltre - come di un dato di diritto vivente  -  della
 permanenza  dei  reati  di  assenza  dal servizio, intendeva porre in
 risalto  che  dall'"interruzione  della  permanenza"  conseguente  al
 giudizio derivano seri problemi di legittimita', con violazione delle
 citate disposizioni costituzionali.  E nell'occasione era apparso che
 l'istituto    dell'"interruzione    giudiziale   della   permanenza",
 individuato  quale  responsabile  delle   lamentate   illegittimita',
 trovasse il suo riscontro normativo nel citato art.  649 c.p.p.
   Con  l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1995 la Corte costituzionale
 ha  dichiarato  la  manifesta   inammissibilita'   della   questione,
 rilevando  innanzitutto  che  l'effetto dell'"interruzione giudiziale
 della  permanenza"  non  discende   affatto   dall'applicazione   del
 principio  contenuto  nell'art.    649  c.p.p.;  ma  soprattutto  che
 l'origine delle asserite incostituzionalita'  non  e'  l'interruzione
 giudiziale,   bensi'   il  fatto  che  il  reato  sia  configurato  e
 disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che
 la permanenza  si  collega,  oltre  che  alle  caratteristiche  delle
 disposizioni  incriminatrici  e all'art. 158, primo comma, c.p., alla
 disposizione dell'art. 68  c.p.m.p.,  secondo  cui  per  i  reati  di
 assenza  dal  servizio  il  termine  di  prescrizione,  se  l'assenza
 perduri, decorre dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta' per
 la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio militare, e  a
 quella  infine  dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964 n. 237, che per i
 militari di truppa  stabilisce  di  norma  l'estinzione  dell'obbligo
 militare  alla  data  del  31  dicembre  dell'anno del compimento del
 quarantacinquesimo anno di eta'.
   La Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica ai  suoi
 profili originari e fondamentali.
   Il  quesito  se  i  reati  omissivi  propri  (nel  cui ambito vanno
 compresi  quelli  di  assenza  dal   servizio   perche'   consistenti
 nell'inottemperanza  al  dovere  di  presentazione  alle  armi,  o di
 riassunzione del servizio al termine  della  legittima  assenza  o  a
 seguito  dell'allontanamento arbitrario) siano, o meno, permanenti ha
 avuto varie soluzioni in giurisprudenza e  soprattutto  in  dottrina.
 Oltre  ad orientamenti intermedi, sono presenti in quest'ultima anche
 concezioni estreme: quella secondo cui il reato omissivo proprio  mai
 potrebbe  essere  permanente;  quella  secondo  cui il reato omissivo
 proprio sarebbe il reato  permanente  per  antonomasia.  Quanto  alle
 assenze dal servizio, secondo l'ormai prevalente dottrina (Venditti e
 di  recente  Brunelli  e  Mazzi)  si tratterebbe di reati istantanei,
 mentre  in  giurisprudenza  unanime  e'  l'idea   che   siano   reati
 permanenti.
   La  tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente si
 basa   sul   perdurare   dell'obbligo   extrapenale   (c.d.   obbligo
 sottostante)  la  cui  inosservanza  e'    penalmente  sanzionata,  e
 corrisponde  dunque  alla  concezione   del   diritto   penale   come
 ulteriormente  sanzionatorio  di  precetti  propri  di  altre branche
 dell'ordinamento giuridico.  Per  quanto  specificamente  riguarda  i
 reati  di  assenza  dal servizio, lo stretto collegamento tra diritto
 penale e precetti dell'ordinamento militare e' anche  particolarmente
 sottolineato  dalla  disposizione  dell'art. 68 c.p.m.p., sulla quale
 giustamente si sofferma la stessa  Corte  costituzionale  nella  gia'
 citata  ordinanza  n.  150 del 1995.  Nel caso di assenza che non sia
 ancora terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere  dal
 giorno  in  cui  per  il  militare  cessa  in modo assoluto l'obbligo
 militare: norma che, in quanto correlata all'art.  158,  primo  comma
 c.p.,  viene  esattamente,  o quanto meno correntemente (cosi' da dar
 luogo a diritto vivente), intesa quale  configurazione  autentica  (e
 del resto l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di "permanenza" di
 reati  non istantanei e per di piu' con una permanenza che ha termine
 con la cessazione dell'obbligo militare.  In definitiva, per  diretta
 statuizione  dello stesso legislatore i reati di assenza dal servizio
 sono delineati come permanenti e piu' particolarmente con un  periodo
 di   consumazione  che  puo'  anche  durare  venticinque  anni  circa
 (dall'eta' del servizio di leva sino al congedo assoluto).
   E' da questa situazione normativa che scaturiscono -  come  per  il
 Milioto  -  le  conseguenze  gia'  da  questo giudice denunciate come
 trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui
 e' bene ancora brevemente illustrare.
   Si consideri innanzitutto come, dato che dal giudizio  in  costanza
 della permanenza prende vita un .nuovo fatto di reato che a sua volta
 richiede    un   ulteriore   giudizio,   si   instaura   la   spirale
 fatto-giudizio-fatto,  e  cosi'  via,  per  cui  la   responsabilita'
 dell'imputato  non  dipende  soltanto  dal  suo  operato, bensi' - in
 patente violazione dell'art.  27, primo comma, della  Costituzione  -
 anche   dal  funzionamento  dell'apparato  giudiziario  militare.  La
 pluralita' delle condanne per un unico reato permanente giudicato  in
 piu'  riprese  comporta, inoltre, un progressivo aumento della pena e
 un trattamento sanzionatorio che diviene una prova di  forza  tra  lo
 Stato ed il condannato, chiaramente in contraddizione con la liberta'
 di  coscienza  garantita  dall'art.  2  della  Costituzione  e con la
 finalita' rieducativa della pena di  cui  all'art.  27,  terzo  comma
 della Costituzione. Ed ancora: la moltiducazione dei giudizi comporta
 un  innalzamento  della  pena,  praticamente  indeterminato,  sino al
 limite del triplo del massimo della pena edittale, in  contraddizione
 con  il  principio  di  legalita'  della  pena  sancito dall'art. 25,
 secondo comma, della Costituzione. Ne risulta, infine, violato  anche
 il  principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in
 quanto, a parita' di periodo di assenza dal servizio, il  trattamento
 sanzionatorio  complessivo  viene  a derivare dal grado di efficienza
 dell'apparato  giudiziario  competente a conoscere del reato nei vari
 autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale.
   Responsabile  di  quest'inaccettabile  risultato,   che   gia'   il
 legislatore  del 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico
 giudizio a norma dell'art. 377 c.p.m.p., appare, come  si  e'  detto,
 l'art.    68  c.p.m.p.,  in  difetto del quale i reati di assenza dal
 servizio, in adesione alle piu' accreditate  concezioni  dottrinarie,
 sarebbero  da  considerare  istantanei;  oppure  sarebbero  ancora da
 considerare permanenti, ma secondo ben diverse  modalita'  e  cadenze
 temporali,  tali  da  non comportare quella spirale delle condanne su
 cui si incentrano le censure di incostituzionalita'.
   In merito a quest'ultimo punto, non puo' infatti  sottacersi  dalla
 sfasatura  logica  e temporale esistente tra gli obblighi che vengono
 sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo
 dalla  cui  estinzione  dipende  ex  art.  68  la  cessazione  .della
 permanenza nel reato dall'altro.
   L'obbligo   sanzionato   dall'art.   151   c.p.m.p.  e'  quello  di
 presentarsi ad un determinato reparto militare per  intraprendere  il
 servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in
 ordine  alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto
 (divenendo mero obbligo di  mettersi  a  disposizione  del  distretto
 militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena
 con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un
 nuovo  ciclo  addestrativo,  e  quindi  una nuova chiamata alle armi.
 L'obbligo sanzionato dagli artt. 148 e 149  c.p.m.p.  in  materia  di
 diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che
 analogamene  si  modifica,  con  la  possibilita'  che  ne  derivi la
 cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore,
 trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15  luglio
 1967),  nella  forza  assente del distretto militare di appartenenza.
 L'obbligo cui, vigendo l'art. 68 c.p.m.p., e' collegata la cessazione
 della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e 10  d.P.R.
 14  febbraio 1964 n. 237, quello militare nella sua globalita', della
 durata di venticinque  anni  circa  e  comprensivo  di  vari  doveri,
 soggezioni,  limitazioni  di  diritti.  Si  tratta  quindi di un dato
 normativo  onnicomprensivo,  della  prestazione  militare  nella  sua
 globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno alla base
 delle varie figure di reato.
   E  dunque  le  descritte  incostituzionalita'  sono  da  attribuire
 all'art.  68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di  considerare
 come  istantanei  i  reati  di  assenza di servizio; ma anche perche'
 configura una permanenza sui generis, un periodo di consumazione  che
 si  prolunga  sino a coincidere con l'obbligazione militare nella sua
 interezza.
   Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute
 nella citata  ordinanza  della  Corte,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 68 c.p.m.p., in
 relazione agli artt. 2, 3, 25, secondo comma e 27,  primo  e  secondo
 comma della Costituzione.
   La  questione  e' rilevante nel presente giudizio in quanto, con la
 caducazione  della  norma  impugnata,  sarebbe  evitata  un'ulteriore
 condanna per il Miliotto.
   Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche
 pervenirsi,  a parere di questo tribunale, per semplice estensione, a
 norma   dell'art.   27   della   legge   11      marzo   1953   n.87,
 dell'illegittimita'  dell'art.  377  c.p.m.p.,  gia'  pronunciata con
 sentenza della Corte n. 469 del 1990. E' evidente il nesso  dell'art.
 68    con  la  disposizione  secondo  cui,  per  e garantire un'unica
 sentenza, il giudizio per i reati di assenza era  sospeso  sino  alla
 cessazione  della  permanenza.    essendo  venuto  meno  l'art.  377,
 dovrebbe pertanto pronunciarsi  l'illegittimita' anche dell'art. 68.